La Stampa, 8.7.2015, “Tre motivi per salvare la Grecia” di Marta Dassù

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Le cose non saranno affatto facili per i greci. Dopo il no che è riuscito a guadagnarsi attorno a un quesito insensato, il giovane Tsipras ha finalmente fatto due cose ragionevoli: si è liberato di Yanis Varoufakis – riconoscendo così che il suo ex ministro delle Finanze era diventato un mega-ostacolo, invece che un aiuto – e ha cercato di unire politica e istituzioni dell’intero Paese attorno a una linea che potrebbe essere descritta così: il no era in realtà un sì all’Europa, siamo pronti a introdurre riforme credibili, abbiamo vitale bisogno di soldi. E quindi aiutateci – ha scritto al presidente del Consiglio europeo il Presidente di una Grecia sull’orlo del precipizio: la decisione «consensuale» del Parlamento di Atene cambia infatti le cose, creando la «cruciale opportunità – queste le parole testuali – di raggiungere un accordo economicamente e politicamente sostenibile».
Si vedrà oggi – ieri, all’ennesimo vertice straordinario di Bruxelles, mancava ancora una proposta scritta da parte di Atene – quale linea negoziale concreta metterà davvero sul tavolo la Grecia. Ma il tentativo a me pare chiaro: neutralizzare l’irritazione profonda della Grande Coalizione che conta, quella tedesca, con una «grande coalizione» ellenica.
Tentando così sia di ripristinare una qualche fiducia nella Grecia come interlocutore credibile; sia di parare uno degli ostacoli principali a un accordo: il timore, da parte dei creditori, di un effetto contagio. Non di un contagio finanziario – come dirò subito – ma di un contagio politico a favore di altre forze populiste in Europa.
Ma le cose, dicevo, non saranno affatto facili per Tsipras. Perché la fiducia non va e viene tanto facilmente, in un negoziato internazionale: una volta rotta, ricostruirla è impresa ardua. E perché lo scenario di una Grexit non spaventa più di tanto buona parte dell’Europa. L’eventuale uscita di Atene dall’euro, dopo anni di tira e molla negoziali provocati dagli errori di entrambe le parti, è ormai una ipotesi che viene contemplata senza paure eccessive: rispetto al 2010-2011, le condizioni finanziarie europee sono meno precarie e qualche «firewall» è stato costruito nel tempo. Per quanto questa ipotesi possa essere ottimistica (vale sempre, io credo, il monito di Mario Draghi sulla «terra incognita»), la conseguenza è che il partito del Grexit è più forte di prima. Lo è non solo dove possiamo immaginare che sia ma anche in Paesi, come la Spagna, che le riforme le hanno fatte a caro prezzo e che non intendono premiare gli ammiratori locali (Podemos) di Tsipras. Per i mercati finanziari di un’Europa che non continui a guardarsi solo l’ombelico, potrebbe essere più rilevante lo slow down della Cina che non la sorte economica della Grecia, con il suo risicato 2% del Pil dell’Ue.
Tutto questo vale, tuttavia, se la crisi greca viene vista – come purtroppo viene vista da troppe cancellerie europee – come un problema solo economico o solo finanziario di tutela dei creditori; e se il richiamo è solo alle regole tecniche, per quanto importanti le regole siano per la tenuta della zona euro. La mia convinzione è che l’Europa debba invece adottare – finalmente – una visione geopolitica unitaria, basata su tre concetti essenziali. Primo, la frattura fra Nord e Sud del Vecchio continente – che è in effetti l’eredità più grave e duratura della crisi finanziaria – riduce la sicurezza collettiva: l’Unione europea non può essere solo l’Europa dei forti, deve riuscire a integrare le economie periferiche e a rischio. Non per ragioni puramente solidaristiche. Ma per una ragione «egoistica»: quanto più le economie periferiche declineranno, tanto più i rischi esterni diventeranno interni all’Europa nel suo insieme – dai flussi illegali di immigrazione, al terrorismo, alla criminalità organizzata. Secondo: la competizione globale avviene ormai su scala continentale. Per il futuro dei mercati europei, conta probabilmente di più lo scoppio della bolla finanziaria della Cina che non la sorte della Grecia. Conterà di più Brexit (una Ue senza Gran Bretagna) che Grexit (un euro senza Grecia, che potrebbe invece restare nell’Ue). E alla fine, se non riusciremo a sollevare la testa dalle beghe di casa, conterà di più il vertice russo-cinese in Asia centrale che l’ennesimo consiglio straordinario di Bruxelles. Terzo: la scossa che viene da Atene potrà anche essere digerita sul piano economico e finanziario ma è una clamorosa sconfitta politica anche per Bruxelles. E quindi è un lusso che l’Europa non può permettersi, nelle condizioni di oggi.
Di fronte a un Mediterraneo in fiamme, alla crisi con la Russia, a un’America più distante di un tempo, l’Europa ha bisogno (almeno) di se stessa. E ha bisogno di legittimazione democratica: sono ormai passati gli anni in cui l’Ue – per usare una celebre espressione – poteva essere costruita dai tecnocrati, «dietro un velo di ignoranza». La crisi greca viene letta come una benedizione dagli euro-scettici, come una grana dai pragmatici, come una specie di purificazione dagli euro-integralisti. Io proporrei di vedere invece il problema per quello che è. Perché l’Europa abbia un futuro, solidarietà (europea) e responsabilità (nazionale) devono finalmente combinarsi. La crisi greca è, da questo punto di vista, un precedente. Che impone di ripensare ai motivi per cui questo mix – necessario in qualunque unione di Stati che funzioni – ha cominciato a scricchiolare. Se la partita verrà persa, che l’Europa vinca poi la sua battaglia globale sembra alquanto improbabile.