Centro Studi sul Federalismo (Commenti – n. 53, 5 maggio 2015), In cerca di una governance europea delle migrazioni, di Andrea Cofelice*

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La riunione straordinaria del Consiglio europeo dello scorso 23 aprile
sulle “pressioni migratorie nel Mediterraneo” si è conclusa con l’
adozione di un’unica decisione immediatamente operativa: il
potenziamento delle operazioni Triton e Poseidon, mediante l’aumento
delle risorse finanziarie (triplicate per il 2015 e 2016) e del numero
dei mezzi a disposizione. Al contrario, la proposta di modificare il
mandato e ampliare il raggio d’azione delle suddette missioni, già
inserita nel piano in 10 punti presentato dal Commissario Avramopoulos
al Consiglio congiunto dei ministri degli Esteri e dell’Interno del 20
aprile scorso, non ha trovato l’accordo unanime dei Capi di Stato e di
Governo europei.

Il Consiglio europeo, dunque, non è riuscito a realizzare neanche
quello che per molti organismi internazionali e autorevoli
organizzazioni non-governative rappresentava il minimo accettabile,
ovvero il lancio di una più ampia operazione umanitaria di ricerca e
salvataggio, eventualmente ispirata a “Mare Nostrum” (la cui efficacia
è ancora oggetto di dibattito). L’aumento di mezzi e risorse di cui
Triton disporrà, sostanzialmente gli stessi messi a disposizione della
precedente missione italiana, inciderà positivamente sulle capacità
della missione di rispondere alle richieste di soccorso. Tuttavia,
Triton continuerà ad essere una missione di controllo delle coste
europee, finalizzata al contrasto dell’immigrazione irregolare e del
crimine trans-nazionale, con un raggio d’azione (circa 30 miglia
nautiche dalle coste italiane e maltesi) circoscritto rispetto a Mare
Nostrum (che si estendeva fino a circa 100 miglia nautiche a largo di
Lampedusa). Poiché, secondo Frontex, la maggior parte delle operazioni
di salvataggio si verifica a 155 miglia a sud di Lampedusa, le capacità
di ricerca e salvataggio di Triton continueranno a essere limitate.

Sulle altre questioni aperte (lotta contro i trafficanti, prevenzione
dei flussi migratori irregolari e rafforzamento della solidarietà
interna), il Consiglio europeo ha adottato dei semplici “orientamenti”,
rimandando ogni decisione concreta a futuri incontri e iniziative.
Considerata la complessità della materia e le contrapposizioni
esistenti tra gli Stati membri, era probabilmente irrealistico
attendersi di più da un Consiglio europeo “straordinario”. Né sembra
trovare effettivo riscontro la convinzione secondo cui il Consiglio
europeo abbia segnato un cambiamento nell’approccio europeo al problema
dei migranti. La Dichiarazione finale, infatti, sembra riproporre, in
maniera preponderante, la consueta visione “securitaria” delle
politiche migratorie europee, secondo cui le sfide poste dai flussi
misti provenienti dal Mediterraneo debbano essere affrontate quasi
unicamente con strumenti repressivi, o con azioni preventive
finalizzate a contrastare le organizzazioni criminali coinvolte nel
traffico e sfruttamento di esseri umani.

Un reale cambio di paradigma richiede l’adozione, a fianco di misure
emergenziali nel breve periodo, di iniziative normative, politiche e
operative ben più ambiziose, finalizzate a far conciliare le questioni
di sicurezza dei Paesi riceventi con la sicurezza e i diritti umani
delle persone migranti. Nel breve termine, la lotta ai trafficanti,
responsabili di un numero incalcolabile di morti in mare, è una
priorità. Tuttavia, non sono i trafficanti la vera causa del problema;
la loro proliferazione è semmai dovuta ad un duplice ordine di fattori:
una disperata domanda di protezione internazionale (sostenuta
soprattutto da persone provenienti da Eritrea, Siria, Somalia,
Afghanistan, Mali, Gambia, Costa d’Avorio, Sudan e Palestina) e la
contestuale impossibilità di accedere a vie legali per richiedere asilo
in un Paese dell’UE. Ed è su questi fattori che bisogna intervenire,
innanzitutto attraverso l’apertura di ulteriori canali legali per le
richieste di asilo.

Diverse soluzioni possono essere contemplate. In primo luogo il
reinsediamento dei richiedenti protezione internazionale dai Paesi di
primo asilo, dove non hanno futuro, o di transito, dove non possono
essere protetti (come nel caso della Libia), in un Paese europeo. L’UE
sta già sperimentando tale possibilità: si veda il “Joint EU
Resettlement Programme”, condotto in collaborazione con l’UNHCR. In
secondo luogo, il rafforzamento della presenza UE, attraverso
rappresentanze diplomatiche o missioni miste UE/Stati membri, nei Paesi
limitrofi alle zone di conflitto, al fine di analizzare fin da subito
la fondatezza delle domande di asilo. Infine, sviluppare ulteriormente
programmi di capacity building in collaborazione con Paesi terzi e
organismi regionali (tra cui Unione Africana, ECOWAS, Comunità dell’
Africa Orientale), al fine di incrementare la loro capacità di
accogliere e proteggere i richiedenti asilo.

Al proprio interno, l’UE è chiamata invece a riconsiderare il sistema
di condivisione degli oneri, che dovrebbe includere anche il nodo della
ricollocazione dei rifugiati, al fine di dare piena attuazione al
concetto di solidarietà sancito dal TFUE; a promuovere un approccio
maggiormente comunitario delle politiche migratorie, che veda il pieno
coinvolgimento di Parlamento e Commissione (quest’ultima non solo in
qualità di “agente” degli Stati membri); ad adeguare le proprie
politiche migratorie al diritto internazionale dei diritti umani, anche
a seguito delle sentenze della Corte europea dei diritti umani. Tra le
azioni più urgenti in tal senso: adottare regole certe (e meccanismi
sanzionatori) per far cessare le pratiche dei respingimenti e delle
espulsioni collettive; abbreviare i tempi e migliorare le condizioni di
detenzione nei luoghi di prima accoglienza dei migranti irregolari e
richiedenti asilo; garantire la libertà di movimento dei beneficiari di
protezione internazionale nello spazio UE; dotarsi di una legislazione
per gestire i flussi migratori riconducibili a fattori climatici ed
ambientali; rendere trasparente la cooperazione bilaterale con i paesi
terzi in materia di migrazione, dando priorità al rispetto dei diritti
umani di migranti e rifugiati.

Tuttavia, per essere realmente efficaci, tali azioni andrebbero
inserite in una strategia di lungo periodo che affronti il fenomeno
migratorio alle radici, riducendo o eliminando i cosiddetti “fattori di
spinta” (push factors). A tal fine, l’UE dovrebbe agire perlomeno su
tre piani: lanciare un piano di sviluppo per l’Africa e il Medio
Oriente (possibilmente ispirato al precedente del Piano Marshall);
promuovere un’iniziativa multilaterale finalizzata alla stabilizzazione
politica della regione, con il pieno coinvolgimento di altre grandi
potenze; avviare una discussione seria in seno alle Nazioni Unite per
una governance globale del fenomeno migratorio, il quale, a differenza
di altri temi globali ad esso strettamente collegati (tra cui sviluppo,
salute, ambiente e commercio), non gode ancora di un regime normativo e
istituzionale coerente a livello internazionale.

Il primo test per comprendere se effettivamente vi sia la volontà
politica di procedere verso questo reale cambiamento di paradigma sarà
rappresentato dalla comunicazione della Commissione sulla futura agenda
europea sull’immigrazione, annunciata per maggio, e dagli esiti del
Consiglio europeo di giugno. Si tratterà allora di scegliere tra il
mantenimento dell’attuale sistema, una “fortezza Europa” sempre meno
impermeabile, e il lancio di una politica europea di più ampio respiro,
che sappia coniugare sicurezza e diritti per tutti.

* Ricercatore del Centro Studi sul Federalismo

(Le opinioni espresse non impegnano necessariamente il CSF)