Corriere della Sera, 14.06.2016
False paure e vere sfide per il referendum sulla Brexit
Tutti i rischi di un’Unione europea «a domanda»
di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi
Alcuni Paesi europei, soprattutto Francia e Germania, stanno alzando i
toni, minacciando ritorsioni commerciali contro la Gran Bretagna — cioè
la sua esclusione dal mercato unico — in caso Londra decida di
abbandonare l’Unione Europea. Non è chiaro quanto queste minacce siano
credibili. È davvero possibile che dopo il 23-24 giugno l’Ue imponga
tariffe doganali sui prodotti inglesi? O impedisca alle banche con sede
a Londra di operare sul continente? A noi sembra poco probabile, come
giustamente notava Ferruccio de Bortoli (Corriere, 12 giugno). Dopo un
po’ di instabilità sui mercati, settimane di reciproche accuse e
qualche parola grossa, Gran Bretagna e Unione Europea si siederebbero
intorno ad un tavolo per trovare un accordo di libero scambio così come
esiste tra la Ue e la Svizzera o la Norvegia. E Londra, pur perdendo
qualche istituzione finanziaria, ad esempio qualche clearing house ,
continuerebbe ad essere la più importante piazza europea e una delle
più grandi del mondo.
Le regole
La Brexit apre però un altro fronte. Vi sono alcuni Paesi che si
trovano sempre meno a loro agio nell’Unione Europea: ad esempio Polonia
e Ungheria che non accettano le regole sulla distribuzione dei
rifugiati e vorrebbero trovare il modo per evitare di applicarle. Oggi
non considerano un’uscita dall’Unione perché temono di subire costi
commerciali elevati.
Le conseguenze
Il precedente di una Brexit relativamente indolore potrebbe far loro
cambiare idea. E un’altra crisi come quella greca, potrebbe anch’essa
finire con l’uscita dall’euro e dall’Ue anziché, come sta accadendo,
con un lento processo di riallineamento all’Europa. Insomma, se la Gran
Bretagna uscisse la conseguenza più grave non sarebbe tanto sui
rapporti tra Londra e l’Ue, ma il messaggio che l’Unione non è una
costruzione indistruttibile, bensì un accordo temporaneo che «a
domanda» e senza grandi costi può restringersi ad un sottogruppo di
Paesi piu omogenei. Invece di un’Europa di 28 Paesi potremmo presto
ritrovarci con un’Unione più piccola ma più coesa. Fino ad ora l’Europa
si è sempre basata sul presupposto che si potesse solo andare avanti,
con più integrazione e con sempre più Paesi membri. Abbiamo raggiunto
un punto — forse lo abbiamo già superato — in cui maggiore integrazione
e un ulteriore allargamento non sono più compatibili. Anzi, maggiore
integrazione potrebbe richiedere la perdita di qualche Paese membro.
Sarebbe un bene o un male? Un’Unione più omogenea potrebbe essere meno
bloccata dai conflitti fra i propri membri.
I conflitti
Finora la Ue non è riuscita a coordinare con efficacia politiche che
chiaramente dovrebbero essere gestite a livello europeo: dalla politica
estera, alla creazione di un esercito comune (almeno una guardia di
frontiera comune un po’ più seria dell’attuale Frontex), alla gestione
centralizzata dell’immigrazione. Invece abbiamo coordinato ciò che era
politicamente possibile al momento anche se a volte inutile. Abbiamo
cercato di scrivere una Costituzione troppo dettagliata e retorica che
non sorprendentemente i cittadini hanno rigettato. Invece non si è
fatto quello che era davvero importante, in primis sull’immigrazione, a
causa dei conflitti di interesse che dividono i Paesi membri. Forse un’
Europa più piccola ma più coesa potrebbe fare meglio. Non sarà il
referendum britannico a demolire la costruzione europea, qualunque sia
il risultato del voto. Ma le istituzioni europee si distruggeranno da
sole se non sapranno ritrovare il consenso dei loro cittadini. La
crescita di partiti populisti ed anti europeisti è il segnale di un
disagio vero, troppo a lungo sottovalutato in nome del realismo
politico che produce vertici tra i capi di Stato e di governo europei
sempre più deludenti. Una dissoluzione dell’Ue renderebbe i singoli
Paesi europei pressoché irrilevanti in un mondo dominato da Stati Uniti
e Cina. Ma altrettanto irrilevante è un’Europa di 28 Paesi che non
riesce a condividere politiche che siano accettate con un minimo di
entusiasmo da una larga maggioranza di cittadini.